"In quei tempi, in un pomeriggio autunnale, su una bicicletta
    arrugginita arriva Angelo. Un ragazzo dallaria timida, un po' trasognata, sotto
    braccio un rotolo di disegni mentre si presenta con imbarazzo e non osa chiedermi un
    giudizio su quei suoi lavori. A fatica riesco a sapere che si chiama Angelo Lorenzon, che
    abita a Refrontolo ed è figlio di agricoltori. Vorrebbe diventare pittore ed è una sua
    vocazione fin da adolescente".
    Chi racconta è Sandro Nardi, il primo (e unico) maestro della pittura
    di Lorenzon. "Quei tempi" erano mezzo secolo fa. Come poteva dipingere, allora,
    un "figlio di agricoltori" nella dolce plaga veneta di Refrontolo? Ci sono
    alcuni disegni e dipinti del 1950-51, quando Angelo faceva ancora il servizio militare:
    immagini duna cattivante ingenuità, certo fuori da ogni modernità, ma vive, come
    uscite dal di dentro, virginalmente. Ecco la natura morta con il cappello da soldato e le
    montagne sullo sfondo; ecco un Cristo mestamente seduto in mezzo alla campagna; ecco
    alcune figurine di commilitoni soffuse duna arguzia gentile. Poi, più avanti,
    compaiono i cavalli bradi: quasi simboli di una presenza muta nellambiente
    incontaminato. Chi era quel giovanotto in un autoritratto del 1951 che si dipingeva con
    gli occhi fissi nel vuoto, come per una riflessione sul perché della vita, sui valori
    dellesistenza?
    Ce lo descrive un altro maestro che non cè più: Augusto Murer.
    "Angelo - egli ha scritto - è nato e cresciuto in un ambiente in cui luomo è
    indissolubilmente legato alla natura, una natura che nella sua rustica verità niente
    concede al decorativo; ove la quiete e gli intatti silenzi invitano luomo, ancora in
    grado di esercitare il suo ruolo di primo piano, a pause di riflessione e di
    ripensamenti". E ancora, sempre secondo la testimonianza di Murer : "Lontano da
    influssi di ambienti culturali esterni, la sua vita si è venuta sviluppando nel contatto
    quotidiano con la pietra, con lerba, con laria, collalbero e colla sua
    gente, da cui ha tratto ogni suggerimento, ogni ispirazione".
    Bisogna partire effettivamente da qui: dal carattere meditativo e un
    po solitario di Angelo Lorenzon, dal suo amore per le colline in cui abitava, dagli
    affetti da cui era circondato. Altrimenti bisognerebbe considerarlo, almeno per quanto
    riguarda la sua giovinezza, un artista "fuori dal tempo".
    ....
    ...la revisione dellopera di Lorenzon può portare a scoperte
    felici. Emerge non più la dissociazione cinica e feroce tipica del Sessantotto e dei
    successivi "anni di piombo" della nostra storia; bensì un tentativo di
    riconciliazione con il sentimento più profondo della vita. Lorenzon ha passato momenti
    duri, anche drammatici; li ha espressi nella sua pittura, ma li ha anche superati grazie
    allequilibrio interiore che mai gli mancava. Limmersione nella natura, il
    sentirsi parte di un tutto unitario, lappartenenza ad una civiltà come quella
    veneta, il calore della famiglia, la vicinanza degli amici, anche il silenzio della
    meditazione, il volgersi pacato alle bellezze del paesaggio: tutto ha contribuito alla
    maturazione delluomo, quindi al trasformarsi del suo humus vitale nellopera:
    sia essa pittura o scultura o grafica. 
    Ci chiediamo allora: non è stato forse, quello di Lorenzon, un cammino
    di esemplare testimonianza? Si può vivere anche così; e così si può esprimere se
    stessi. Limportante è portare con sé quella "verità" (etnico -
    culturale, quindi al fondo biologica) che oggi è diventata così rara in un mondo
    alienato e nomade come il nostro. Lorenzon è stato un uomo libero che ha saputo rifiutare
    lesteriorità delle mode per evidenziare tutta la sua qualità organico -
    strutturale. La sua arte va vista e giudicata in questo senso. 
    E un arte - lo diciamo oggi, a ventidue anni dalla sua morte - in
    cui confluiscono esperienze anche molteplici, ravvivate e depurate da un animo forte e
    meditativo, in cui cè il segno della sofferenza ma anche quello dellamore. La
    tecnica esecutiva non appare mai il fine, bensì il tramite di sentimenti e di
    aspirazioni, di ansie e di abbandoni. Ammiriamo soprattutto i momenti di tormento e di
    drammaticità; ma alla fine il loro approdo non può che essere quello della serenità
    danimo. E di essa cè tanto bisogno in questo travagliato volgersi del secolo.